Mai come in questo periodo abbiamo assistito al diffondersi in tutto il nostro Paese di iniziative nate dal popolo e rimbalzate in maniera quasi ossessiva sui social, volte a esorcizzare, attraverso riti collettivi, lo spaesamento portato dal coronavirus. Ci siamo riscoperti tutti bisognosi di unirci nel cantare, nel condividere gesti di generosità, nell’accendere lumi e nel desiderio di farci vedere agli occhi del mondo così che anche i satelliti possano amplificare il nostro bisogno più profondo: quello di rialzarci e di vedere «una luce», tutti speranzosi e più o meno con sapevoli che la Gloria brilli sopra di noi (Is 60,1). Ma da quale luce, oltre le tante accese dall’umanità, traiamo veramente una fonte di gioia, di speranza e di salvezza? Serve ancora «accendere un cero» ai nostri giorni? Pare proprio di sì. Sembra evidente che la luce sia l’antidoto per eccellenza, resistente imperterrito agli effetti del virus dello spaesamento e della segregazione, fin dalle nostre origini, cioè fin da quando «la luce fu e rifulse su coloro che abitavano in terra tenebrosa» (Is 9,1).
Entrando nelle nostre chiese la presenza delle candele accese colma l’assenza comunitaria e prolunga la preghiera di offerta e di intercessione verso Colui che è venuto per illuminare la nostra vita. La liturgia quaresimale ci ha insegnato che nel deserto siamo guidati dalla luce della Parola; nella guarigione del cieco nato ritroviamo l’afflato che nasce dal cuore dell’uomo: dalla cecità del cuore possiamo guarire! Anche la samaritana, che nello sconosciuto incontrato al pozzo vede un profeta, ci addita una luce nuova per la vita.
Ma è nella Liturgia della Veglia Pasquale che troviamo il codice per decifrare il «messaggio dei messaggi»: nel braciere dell’umanità che arde in questi giorni nella Chiesa, tutti attendiamo la fonte inesauribile della Luce che ha trionfato sulle tenebre e che non conosce tramonto. Nel deserto dei nostri giorni attendiamo, come il vecchio Simeone, la luce delle genti alla quale accendere la fiaccola della nostra salvezza.
Quest’anno abbiamo visto l’accensione del Cero pasquale attraverso i nostri schermi domestici: il Cero ha bucato e spaccato – come si suol dire nel linguaggio televisivo – la cortina che momentaneamente ci impedisce di celebrare insieme la Pasqua nelle nostre comunità. Nel preconio pasquale – l’annuncio della Pasqua cantato dopo la processione di ingresso in chiesa con le candele accese - ci viene spiegata la valenza di questa Luce.
Ascoltiamo infatti: «gioisca la terra inondata da così grande splendore: la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo!». Nel Cero, frutto del lavoro delle api che lo adornano, il sacerdote incide una Croce: sopra di essa traccia la lettera «alpha» e sotto la lettera «omega» e tra i bracci traccia le quattro cifre che indicano l’anno corrente. Ai quattro lati e nel centro della Croce sono inseriti cinque grani di incenso che rappresentano le cinque piaghe della Passione di Gesù.
Come non vederci oggi anche quelle della nostra umanità ferita che abita i cinque continenti che tra il già dell’alfa e il non ancora dell’omega della redenzione geme nell’attesa della Parusia? Allora la risposta alla domanda sull’opportunità di accendere un cero potrebbe essere la seguente: in questo mondo, in questo momento, siamo invitati ad uscire dalle tenebre della tentazione dell’isolamento egoistico per rivelare il disegno originario del Creatore. Alziamoci perché viene la nostra Luce: ne vale la pena!
Paola DALLA GASSA
Tratto dal settimale Diocesano La Voce e il Tempo del 16 aprile 2020